L’albero della Vita
Nel 1904 Adolphe Stoclet, finanziere, mercante d’arte e fervente collezionista, commissionò all’architetto Josef Hoffmann la progettazione di una residenza privata a Bruxelles. Non pose limite alla spesa, guidato dal desiderio di raggiungere “la totalità sublime” con un edificio che incarnasse la fusione perfetta fra architettura, pittura e arti applicate. Nella sala da pranzo di Palazzo Stoclet, campeggia quest’opera di rara bellezza: un imponente mosaico di pietre dure, coralli, marmi e maioliche colorate intitolato l’Albero della Vita. L’autore è Gustav Klimt, uno dei più importanti pittori austriaci e uno degli artisti più rappresentativi dell’Art Nouveau.
Innumerevoli sono le ipotesi interpretative di quest’opera e molte davvero affascinanti. Klimt ci parla attraverso il linguaggio dei simboli utilizzando immagini, colori e forme geometriche che reiterano e amplificano il senso del soggetto, l’albero della vita appunto, che ritroviamo con trascurabili sfumature di significato in pressoché tutte le tradizioni, culture e civiltà, dall’Egitto all’antica Grecia, dai nativi americani all’oriente buddhista fino alle tre grandi religioni monoteistiche. Un simbolo ancestrale che richiama all’energia vitale e alla rinascita, che appartiene a un patrimonio collettivo e condiviso, a quell’universo di segni e immagini che risuona dentro ciascuno di noi – volenti o nolenti parte di un tutto – fornendo preziosi strumenti alle necessità dell’anima. E Klimt, nel rappresentare il suo albero della vita, sembra saperlo molto bene poiché numerose sono le citazioni figurate e i riferimenti alle varie culture: il triangolo che contiene l’occhio che in Egitto rappresenta Horus, il dio Sole (solo per citare una tra le numerose accezione di questa divinità complessa e carica di significati stratificati), immagine poi codificata come l’occhio di Dio nell’iconografia cristiana; l’uccello nero appollaiato sui rami, emblema di morte, che volge lo sguardo verso la fanciulla; i rami che si arrotolano elegantemente richiamando i riccioli di vite (simbolo di Gesù) presenti in tanta arte protocristiana, medievale e bizantina, e che non sono altro che spirali, ancora una volta simbolo di rigenerazione e rinascita, energia, forza vitale, ciclicità della vita, viaggio dopo la morte e così via. È tutto ricoperto d’oro il maestoso albero, dorate sono le vesti delle figure e dorato lo sfondo perché l’oro è il metallo prezioso della trasmutazione alchemica (che trasforma in oro i metalli vili), alchimia come metafora del processo di trasformazione e rinascita dell’essere umano attraverso il percorso iniziatico che lo conduce alla coscienza di sé. Perché l’albero della vita è anche l’albero della conoscenza…
Klimt non si limita a ritrarre l’albero, che pur domina maestosamente la superficie occupata dal fregio che si estende per ben sette metri, ma colloca alla sinistra e alla destra di questo altri due nuclei compositivi. Una donna, colta in una posa che richiama gli stilemi egizi e, per la piattezza della figura, tanta arte bizantina (richiamata anche dalla scelta del mosaico e dall’impiego diffuso dell’oro), è immobile, sola e volge lo sguardo all’albero. La figura in oggetto è chiamata “L’Attesa”, ancora non sa che al di là dell’albero si apre uno scenario diverso, una nuova vita raffigurata nella potenza di un abbraccio (detto Il Compimento”) che avvolge le due figure riducendole ad una.
Per lungo tempo ritenuta solo un elemento decorativo, un’ultima figura ancora campeggia all’estremo opposto della donna. E’ Klimt stesso a dirci che rappresenta un cavaliere. Con elmo bianco sul capo e un mantello policromo decorato con motivi rettangolari (figura geometrica che richiama all’elemento maschile) il cavaliere è protettore e custode di quel delicato equilibrio chiudendo la narrazione in un “cerchio” perfetto.
Unione del maschile e del femminile, di anima e spirito, armonica fusione del duplice nell’uno e pacificazione degli opposti a chiusura del viaggio iniziatico dentro se stessi passando però necessariamente per “l’attesa” che è il luogo/spazio senza tempo della coscienza in cui è necessario imparare a sostare pur rimanendo sospesi. Tutto sembra dirci che alla fine si rinasce sempre ma perché accada bisogna pur e necessariamente accettare di morire.
Leggevo ieri un’illuminante riflessione dell’antropologo Paolo Apolito che ancora mi risuona dentro e che vi invito a leggere sul suo profilo Facebook. Si intitola “Iniziazione e coronavirus” e ci regala un punto di vista molto interessante ma soprattutto un’occasione per riconsiderare quanto stiamo vivendo sotto un profilo alternativo.
Per me è stato illuminante e ha aggiunto senso a questa condizione. In una civiltà, la nostra, che sembra negare in nome della scienza e della sovranità della ragione, del denaro e di altre “divinità” moderne il valore del rito, almeno confinato quando non esiliato, ecco che in questa sospensione del tempo (ma anche sospensione della normalità, della libertà, della socialità etc) che siamo chiamati forzatamente a vivere, si affaccia un’occasione anche per noi. Per quanto mi riguarda, tornando al linguaggio a me più familiare, che è quello dell’arte, il messaggio è chiaro e potente. Sembra invitarci l’opera di Klimt ad abitare lo spazio dell’Attesa; non rifuggiamogli, e in questo morire mettiamocela tutta per rinascere migliori. Perché poi torneremo anche a riabbracciarci. “Noi stessi” innanzitutto, e poi “tra noi”.
Gina Ingrassia
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